È stato scritto che ci sono libri che sanno di buono. Basta guardarli, basta toccarli.
Così è bello sapere che, nell’ideare e nel costruire questa mostra dedicata a Giulio Ruffini, per Diego Galizzi è stata fonte d’ispirazione, ma poi anche via maestra, il grosso volume sull’artista pubblicato per le edizioni della Galleria d’Arte La Bottega di Ravenna nel lontano, ma rinomato anno millenovecentosessantotto.
Chi lo conosce sa che stiamo scrivendo d’un libro d’arte fatto davvero ad arte, parole e colori come si deve, confezione, carta e stampa d’altri tempi, ma qui conta su tutto l’averci consegnato, e verrebbe da dire tramandato nel miglior modo possibile, quel ‘primo Ruffini’ che nell’odierna esposizione si può ammirare dal vero ed in una così ampia panoramica.
Da remote pagine, dunque, la mostra muove per una rivisitazione della carriera artistica di Giulio Ruffini dagli inizi fino agli ultimi anni ’60; cioè all’uscita di una monografia di sicuro destinata ad assicurare maggior notorietà al pittore nel panorama figurativo del tempo, ma che dallo stesso Ruffini dev’essere stata avvertita come un punto della situazione, un momento di verifica e di riflessione sulla propria condizione d’artista.
Non a caso, nel titolo del suo esemplare saggio Raffaele De Grada ha presentato Giulio Ruffini come ‘pittore del nostro tempo’, riconoscendogli il ruolo di realista autentico: spontaneo all’inizio, mai convenzionale nell’impegno morale e civile, e solo apparentemente contraddittorio sul piano formale nella fase di ricerca d’un giusto equilibrio tra sentimento e ragione al confronto con le dinamiche figurative dell’espressionismo.
È allora evidente l’importanza della rilettura che in questa esposizione si tenta a oltre mezzo secolo dalla presa d’atto del tentativo di Ruffini di svolgere una moderna pittura realistica, tenacemente e stabilmente in rapporto con il contesto del proprio esistere. E non v’è dubbio che anche tutto il seguito del pittore, fin qui ai più risultato fondato sul valore e sul significato della rimembranza, potrà apparire in chiaro dalla visione retrospettiva di un’arte del ‘primo Ruffini’ così tanto ed intimamente compromessa con la vita.

Si torna, insomma, ad una storia riguardante le arti visive tra l’immediato dopoguerra e l’età della ricostruzione, che è in fondo ancora pienamente da ricostruire con i suoi tanti capitoli entro i quali pure il segno e il colore dell’artista bagnacavallese-ravennate hanno evidenza certa. Basti pensare alla ‘stagione dei premi’ che le nostre recenti indagini all’Istituto per i beni culturali hanno scoperto fiorita in un arco di tempo, tra gli anni ’50 e ’60, in cui per davvero artisti e critici, enti pubblici ed associazioni si sono ritrovati a postulare una nuova coscienza morale della realtà. Ed eccolo lì ben presente anche il nostro Ruffini, al banco di prova di concorsi figurativi banditi nella nostra regione, ma di valenza nazionale, dedicati ai temi del Lavoro, della Liberazione e della Resistenza. Il Compianto sul bracciante ucciso per il Premio Suzzara del ‘52, con lo strepitoso bozzetto anch’esso premiato a Modigliana, ma anche L’eccidio di partigiani vincitore ex aequo (con i dipinti di Eugenio Barbieri, Aldo Borgonzoni, Nello Leonardi, Osvaldo Piraccini e Carlo Rambaldi) nel ’55 a Ferrara, sono esempi mirabili del realismo più impegnato di Ruffini; ma specialmente stanno a dimostrare che in ogni caso l’origine del dramma da rappresentare è stata tutta interna ad una pittura di vita e di natura, fondamentalmente estranea alla retorica della più conformistica corrente culturale popolare. Se chiara, insomma, era apparsa la scelta di campo del Nostro nella dialettica in atto tra realismo ed astrattismo, le opere di quella stagione, che ora si rivedono in questa mostra di Bagnacavallo, sembrano contenere in sintesi tutti i germi del travaglio attraversato proprio dal movimento realista in tempi “di passioni e di illusioni ideologiche, di certezze o di proposte globali, ma anche di dubbi, inquietudini, contrasti, lacerazioni, insofferenze nei confronti di una verità totale assegnato anche all’universo avventuroso e precario dell’arte”, come ha ricordato Ezio Raimondi riferendosi a quella memorabile stagione a premi.
Come per altri romagnoli, si pensi agli esponenti del cenacolino cesenate, che ancora qualcuno si ostina a etichettare come neorealisti, neppure per Ruffini, in fondo, son valsi manifesti o guttusiani proclami di movimento. Più naturalmente l’artista ha liberato un’ansia esistenziale narrando, disegnando e dipingendo, il dramma del suo periodo storico. Semmai ora, nelle ‘Crocefissioni’ che si trovano in un’apposita sezione della mostra, si può meglio intendere il tentativo di Ruffini “di diventare da pittore del sentimento pittore della ragione”, riconosciuto da De Grada nell’utilizzo in qualche misura perfino esasperato del segno.
Ma, proseguendo, del realismo ruffiniano si possono cogliere le proiezioni, proprio come era suggerito dal libro della Bottega ravennate, col suo manifestarsi nel corso degli anni ’60 sempre in evoluzione al passo col tempo. E qui ben si avverte come il confronto con gli ismi europei e le variabili della rinascente figurazione italiana sia stato interamente assorbito dalla condizione stessa dell’operare come ‘pittore di provincia’ sì, ma nel vortice più sofferto e schiacciante determinato dal traumatico passaggio dalla cosiddetta cultura contadina alla società industrializzata e dei consumi. Giustamente dunque, nella scansione tematica studiata da Galizzi, quello che potremmo chiamare il ‘secondo realismo’ di Ruffini è ben rappresentato dalle allegorie di opere come l’Incidente rosso nella quale sembra concentrarsi tutta l’inquietudine del suo autore di fronte alle manifeste forme di alienazione procurate dalla nuova civiltà delle macchine; come pure nella serie paesaggistica dei ‘giardini visti dalla finestra’, di forte carattere simbolico con gli steccati e le cancellate che di fatto escludono una qualche capacità di presenza dell’uomo.
Sembrerebbe l’ultimo effetto di un perdurante vuoto esistenziale per l’artista. Ma ben sappiamo come negli anni a seguire Giulio Ruffini elaborerà la propria meditazione sulla capacità della memoria (nostalgia fondatrice, per dirla con Dario Trento) come mezzo e come fine per esprimersi.
Vien dunque facile pensare, a questo punto, che nell’anno 1968, quando si è stampata la grande monografia che oggi segna idealmente il limite della mostra di Bagnacavallo, Ruffini – ormai alla soglia della piena maturità (i primi dipinti qui in mostra sono risalenti al ‘45 e direttamente dipendenti dalla buona scuola varoliana), e nel pieno di una contestazione al sistema che non ha certo escluso il mondo dell’arte – avesse ben in mente di vestire nuovamente i panni del cantore di epos popolare tra le macerie della sua Romagna ormai scomparsa. Per continuare – ma questo ben lo sappiamo – la propria straordinaria avventura di uomo e di artista, fino all’ultimo indomabilmente capace di essere e di inventare.
Orlando Piraccini