Le radici

Il fiume Lamone è stato nel tempo un grande datore di lavoro per le comunità della Romagna che da sempre ha attraversato. Sono state le sue acque, impastate con il gesso della vena appenninica, a creare l’argilla necessaria per fare di Faenza la capitale della ceramica; il suo corso, gli allagamenti e le varie diversioni hanno plasmato soprattutto gli uomini e il largo paesaggio a nord di Ravenna, fornendo occupazione per migliaia di operai scarriolanti, braccianti e cavasabbia, divenuti negli anni la presenza dominante su quelle terre. Quindi un ambiente socialmente determinato e profondamente identitario, per gran parte del Novecento.

Giulio Ruffini nasce qui nel 1921 e cresce fra la dignitosa povertà di questa gente, a Glorie di Bagnacavallo, una borgata a ridosso dell’argine sinistro di questo fiume, frequentando le scuole elementari a Villanova, dove tutti da secoli sanno intrecciare le erbe palustri per guadagnare qualcosa in più dei modesti proventi della terra.

Lì sono soprattutto le donne, maestre di questo artigianato, ad affrancarsi dai ruoli subalterni lavorando a domicilio oppure in campagna, come dovrà fare la madre Eugenia alla morte prematura del marito, quando il piccolo Giulio aveva solo sei anni e la famiglia si era trasferita da poco a Mezzano.

Madre e figlio torneranno poi ad abitare presso la nonna materna a Glorie, sempre in prossimità di quello stesso fiume, in un sobborgo di operai, dove intraprendere la carriera dell’artista è davvero una scelta coraggiosa. Ma il giovane ha passione e talento; disegna bene, anche se non ha potuto completare gli studi superiori e deve lavorare allo zuccherificio o aiutare lo zio elettricista per contribuire ai proventi della famiglia. 

Nel 1942 però, lusingato da qualche autorevole apprezzamento, riesce a convincere la madre e uno zio a lasciarlo frequentare assiduamente la bottega di Luigi Varoli a Cotignola, dove si fa molta pratica di base, sfogliando un grande libro dei capolavori e della pittura impressionista insieme ad altri giovani praticanti. Casa Varoli è un bel laboratorio di arti e mestieri, che dista da Mezzano una ventina di chilometri, da percorrere faticosamente in bicicletta per trovare le ragioni di una disciplina, forgiata nella manualità e nell’esercizio costante, che nobilitano il mestiere del pittore, alla luce dell’imperativo “Disegna ciò che vedi”. 

Più tardi nei mesi della guerra, nell’estate del ‘44, un suo zio di soli 37 anni, Pietro Lucci, verrà fucilato dai tedeschi per una rappresaglia il 26 agosto insieme ad altri cinque incolpevoli ostaggi poco lontano da casa, alla Camerlona ai bordi della Statale Adriatica.

Perciò nei primi anni del dopoguerra, al momento di tracciare una sua personale ricerca d’autore, Ruffini osserva sì le avanguardie cittadine del tempo e il panorama figurativo europeo, ma come molti suoi coetanei romagnoli ritiene prioritari e irrinunciabili i riferimenti e i valori dell’ambito locale.

Tanto più che la famiglia trasferitasi nuovamente a Glorie, aveva finito per abitare al numero 8 della via intitolata proprio allo zio fucilato.

Le figure degli operai e il protagonismo delle lotte bracciantili, benché umiliato spesso da violente repressioni, unito alla sacralità di un dolore quotidiano per i problemi del lavoro, rappresentarono per tutti gli anni Cinquanta la principale fonte ispiratrice della sua accurata produzione. La madre e la nonna con cui era cresciuto erano affettuose presenze domestiche che si stagliavano ogni giorno dalle lunghe processioni di donne ch’egli vedeva passare in bicicletta per andare al lavoro e raggiungere le terre della frutta, le risaie o le larghe distese di barbabietole da sarchiare.

Lo circondava infatti un paesaggio incapace di ispirare suggestioni gradevoli, mentre erano le figure di uomini e donne al lavoro, o più spesso ritratte nelle pause del lavoro, a fornire materia per i suoi bozzetti e i suoi quadri. Ruffini nasce come narratore di questo mondo della fatica e porterà a lungo con sé questa esigenza compulsiva che abbozza figure alla velocità del pensiero. Ancora negli anni più avanzati confesserà: Sono un semplice osservatore della realtà, con la smania nelle mani di rappresentarla. 

Nel 1951 vince a Milano il “Premio Diomira” come miglior giovane disegnatore italiano, ma fino agli ultimi giorni si ostinerà a descrivere il repertorio delle sue opere, non attraverso comode fotografie, ma con rapidi bozzetti a penna che riproducono sui fogli di piccoli album le forme identificative dei suoi quadri, anche dei più complessi.

Il primo decennio del dopoguerra è il tempo dei concorsi e dei premi di pittura a cui devono partecipare quanti, cresciuti fuori dalle accademie, devono farsi conoscere dai critici di partito, per poi essere recensiti e pubblicati nelle rubriche della stampa militante o sulle pagine della rivista Realismo

A Bologna nell’autunno 1952, durante il Congresso nazionale della Federbraccianti, si tiene di sera nello stesso salone un incontro fra pittori e delegati sindacali. Dalla platea si alza un capolega sardo e grida: “Dovete essere vicini alle nostre esigenze, al nostro bisogno di arte!” E Ruffini ascolta, sia l’appello degli operai che del critico Mario De Micheli. 

Che per quei pittori si trattasse della ricerca di un linguaggio, di una poetica nazional-popolare o meno, oggi poco importa; è comunque un fatto significativo che il nostro artista anche negli anni a seguire non abbia accolto l’invito suadente di amici come Mattia Moreni o Renato Guttuso a trasferirsi nelle capitali dell’arte contemporanea e partecipare ai movimenti d’avanguardia, quanto piuttosto abbia cercato, a partire dalle sue origini romagnole, di affinare una propria espressività all’interno di una precisa condizione storica.

Anche dal suo ristretto ambito personale, per Ruffini si potevano contemplare i drammi più recenti e trasfigurarli in una dimensione assoluta, senza cadere nelle paludi della retorica di circostanza.

In questo senso opere personalissime, che connotano quel suo primo periodo, sono un interno domestico visto dalla finestra, del 1952 intitolato I poveri, capace di condensare tutta la drammaticità di un padre senza lavoro, che non può offrire nulla al piccolo figlio con le braccia protese; tra le mani aperte del bambino e gli occhi chiusi del padre si consuma una delle più toccanti rappresentazioni di tensione e di impotenza della pittura realista italiana. In quel diffuso panorama rurale l’artista si raffina cercando continuamente delle forme primarie con le quali comporre i soggetti prediletti. I braccianti, i renaioli e le donne di quell’ambiente, ritratti al lavoro o durante una sosta, fra attrezzi del mestiere, fiaschi e sporte impagliate della “sua Villanova”, sono nobili testimoni di un epos e di una moralità in cui l’artista si riconosce e si ispira. 

Un’opera pregevole di questa stagione datata 1953-54, come le Due braccianti che riposano, di ritorno dalla XXVII
Biennale di Venezia fu acquistato nel 1955 dal Comune di Alfonsine per abbellire la Sala Consiliare del municipio appena ricostruito, proprio come nobile rappresentazione della comunità.

I quadri a olio più noti giungono a compimento solo dopo infiniti bozzetti di studio, sulle mani incrociate, su pochi oggetti evocativi, sulle posture antiche, che sono il linguaggio corporeo più espressivo della gente piegata dalla fatica. 

Il vissuto familiare lo rende esperto soprattutto nell’osservazione delle pose femminili: che siano le braccianti dai fianchi larghi o le donne disposte in fila per la veglia al defunto, ci appaiono sempre per la forza delle loro figure, per la massa degli abiti scuri o dei fazzoletti in testa che coprono parte del volto. 

È questa evidenza del dettaglio che rende riconoscibili i personaggi raffigurati: non sono profili generici i suoi, bensì quelli usciti dal suo mondo, con il fazzoletto rosso dei contadini, i grembiuli sopra gli abiti femminili e l’ombrello che ripara dal sole e dalla pioggia. Si avverte in queste sue composizioni dedicate al mondo dei vinti quell’accurata scelta di oggetti simbolici che verrà sublimata nella stagione successiva, quella delle icone rurali disposte nei teatrini di memoria, fra lumi a petrolio, legni nodosi e stampe seppiate.

Quelli che Francesco Arcangeli chiamava “i tramandi della provincia”, più che dalla provincia sgorgavano dal suo vissuto personale, come gli interruttori di ceramica, il filo elettrico intrecciato o le carte romagnole con cui avrà giocato a lungo con la nonna nei pomeriggi trascorsi ad aspettare il ritorno della madre. 

C’è poi un altro nucleo tematico di opere, destinate anch’esse ad evolvere in pietosa religiosità, e sono le scene dei massacri di inermi e delle fucilazioni del tempo di guerra. Ruffini li aveva conosciuti; già ventenne, ne era stato colpito in famiglia e ne conservava il lutto. Ora riportava sulla tela e dilatava quel dramma personale a categoria assoluta. Nella famosa Veglia per il bracciante ucciso, e in altri bozzetti simili in cui al bracciante si sostituisce il partigiano, l’artista sovrapponeva quel dramma ai coevi episodi di cronaca che negli anni Cinquanta videro i reparti della Celere sparare sui braccianti e caricare i dimostranti disarmati. È stato scritto che tali episodi non appartenevano al suo raggio d’osservazione, quanto piuttosto ad un generico afflato meridionalista di stampo guttusiano, ma la vicenda familiare pesava ancora e nella primavera del 1949 erano caduti per mano della polizia uomini e donne a Molinella, a S. Giovanni in Persiceto e a Comacchio. L’anno 1950 si era aperto a gennaio con i sei operai di Modena colpiti a morte durante una manifestazione in difesa del lavoro.

La guerra era finita da poco, ma i poveri continuavano a soffrire l’arroganza del potere.

Una svolta significativa nel percorso dell’artista avvenne dopo il 1957, quando Ruffini spinto dal vecchio maestro di Cotignola, dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti di Urbino, poté superare gli esami di abilitazione all’insegnamento e ottenere la cattedra di Disegno e Figura al Liceo Artistico di Ravenna. 

Ecco allora che Giulio va in città. Sono necessari pochi chilometri per raggiungere quella scuola e il primo studio d’artista, posto in una soffitta di via San Vitale sopra l’abitazione del pittore Giangrandi, ma quello è un passaggio decisivo che lo preleva dal mondo contadino, gli apre sguardi e relazioni diverse, inducendolo a rimodulare con gli anni Sessanta il suo orizzonte compositivo, sempre più asciutto e meno narrativo, dove la memoria si fa oggetto e non più racconto.

Compaiono così i nudi femminili in abbandono, i tavoli con i frutti dimenticati, i vasi di terracotta con fiori rinsecchiti.

I simboli affettivi di un mondo primitivo in via di estinzione – si pensi ai traini offerti dalle potenti schiene di mucche e tori disegnati qualche anno prima – lasciano il posto ad una modernità motorizzata, dai colori piani, sconvolta per l’arrivo in Italia dei primi autori pop, giunti dagli Stati Uniti alla Biennale di Venezia nel 1964. 

E ancora una volta Ruffini si dimostra un pittore del nostro tempo, come lo definirà Raffaele De Grada nella poderosa monografia del 1968. Incoraggiato da quelle novità d’oltreoceano l’artista assume segni e segnali dell’epoca nel suo dolente teatro.

La Ravenna che accoglie Ruffini in quei primi anni Sessanta, nel nuovo studio di Piazza Marsala, è essa stessa oggetto di un grande e decisivo travaglio: sul finire del decennio precedente si era insediato lungo il canale Candiano il gigante di Ravenna, il più grande polo petrolchimico d’Europa. La presenza dell’ANIC in effetti è un cuneo che spacca la storia di Ravenna nel tempo e nello spazio: la città del silenzio e dei carriaggi lenti viene ora attraversata da autobotti ingombranti, da lunghe teorie di vagoni ferroviari e da gasdotti fumanti che minacciano l’austera pineta di Dante. 

è un’accelerazione traumatica che sconvolge il suolo e gli uomini, e non può lasciare indifferente il pittore di Mezzano che osserva ogni giorno gli oltre tremila operai richiamati al lavoro da quell’impianto colossale. Sono anche gli anni del boom economico, dei consumi e dell’automobile per tutti, con frenetici spostamenti di inurbati e frequenti incidenti stradali. Anche il padre di Ruffini era morto in un incidente, per una tragica e antica fatalità: scaricando un sacco pesante da un carro agricolo. 

Ma ora la casualità è figlia di un mondo radicalmente cambiato. Poco dopo i primi quadri realizzati su questo tema, l’8 maggio 1965 in un incidente stradale in Romagna, perirono insieme il critico d’arte Alberto Martini, il collezionista ravennate Roberto Pagnani e la moglie di quest’ultimo Raffaella Ghigi. Ruffini che era amico di tutti ne fu profondamente scosso e avvertì nelle sue opere quasi un tragico presagio, ma continuò a sviluppare quel soggetto. Sarà infatti l’ispirazione di altri dipinti, nel breve periodo della tentazione informale, compresa fra il 1964 e il 1967.

Ecco la sintesi di modernità che l’artista va a cogliere nell’incidente stradale. Una morte nuova, una drammatica fatalità sconosciuta nel tempo precedente, che ci schiaccia, racchiudendo in sé la cifra veloce dei tempi e la solitudine di una nuova povertà. 

I sociologi l’avevano chiamata alienazione, e Michelangelo Antonioni era venuto proprio a Ravenna ad ambientarvi il suo poetico manifesto d’artista, Il deserto rosso, nel 1964. Lo affiancava un poeta visionario come Tonino Guerra che, insieme al direttore della fotografia Carlo Di Palma fecero dipingere di grigio i muri della città dove girare le scene principali: lo stesso colore delle ciminiere in cemento e delle nebbie che avvolgono sempre i protagonisti. Di quell’ambiente urbano e di quella stagione Ruffini registra l’angoscia, l’astrazione di nuove forme e la fine del mondo in cui era nato. Fatalmente poi, la protagonista del film Monica Vitti, riferendosi al suo tentativo di suicidio, parla sempre di incidente stradale, come se quell’evento potesse stare oramai nell’ordine naturale delle cose.

La ricerca di Ruffini era approdata a quelle contemplazioni e a quelle allegorie passando prima, all’inizio degli anni ‘60, attraverso una più assoluta rappresentazione del dolore: un tema variamente declinato nel ciclo delle numerose Crocifissioni che avevano però un prius nel 1954, allorché ad abbracciare le ginocchia del Cristo non erano le pie donne, ma le familiari figure dell’artista, come per eternare una sua mitologia della sofferenza, che in fondo è il vero filo conduttore di questi primi vent’anni di lavoro.

Giuseppe Masetti